Uno chef famosissimo in tutta l’Italia ha raccontato di recente un dramma che si è consumato nel suo passato, quando era giovanissimo. Ecco di chi si tratta.
Non sempre quello che vediamo è quello che è. Anzi, capita che a volte quello che vediamo nasconda un mondo che non conosciamo e non possiamo neanche immaginare.
Il mondo della cucina ne è l’esempio lampante: visto dall’esterno, soffermandosi a guardare soprattutto gli chef stellati, sembra un mondo pieno di fasti, scintilli, conquiste.
Eppure spesso nasconde anche dei segreti assurdi, che mai potremmo immaginare guardandolo da fuori.
Questo è il caso ad esempio di uno chef, che ha raccontato di aver vissuto un dramma quando era giovanissimo. Ecco di chi si tratta.
Il dramma dello chef emerso dopo anni
Spesso il mondo della cucina, come abbiamo anticipato, visto dall’esterno sembra quasi fatato. Eppure spesso nel passato di alcuni chef ci sono dei veri e propri drammi.
Questo è un po’ il caso di Antonino Cannavacciuolo. Lui, che pensa e sogna in napoletano ma poi traduce in italiano, lui che in provincia di Napoli (precisamente a Vico Equense) e che lì ha lasciato il cuore, lui, figlio di professore all’istituto alberghiero di Vico Equense, che oggi si definisce anche scultore, per la sua capacità di modellare tutto, anche il cibo.
Probabilmente lo chef deve molto al padre. “Da ragazzo studiavo nella scuola dove papà insegnava, e lavoravo nell’hotel dove cucinava: La Sonrisa, un cinque stelle a Sant’Antonio Abate, vicino Pompei, quello dove adesso hanno ambientato Il boss delle cerimonie, la trasmissione tv di Real Time”: con queste parole, parlando con il Corriere della Sera, Cannavacciuolo ha raccontato la sua infanzia,
Il suo primo incarico? “Aprire le aprire le uova, romperle, separare il tuorlo dall’albume, montarle per il gelato alla vaniglia”. E così lui, instancabile già da ragazzino, preso dalla smania di fare, arrivava ad aprirne anche 800 al giorno e a riempire anche 50 contenitori. Poi, finita la giornata, lavava la cucina, puliva a terra, sistemava il magazzino.
Così facendo passò ai prosciutti: ne disossava anche una ventina al giorno “per preparare i canapé” con “burro e acciughe, cremoso, uova e caviale, formaggi e, ovviamente, prosciutto”.
Della sua infanzia ricorda anche che, quando era ragazzino, alla Sonrisa si teneva il festival della canzone napoletana. Lì suovava il pianoforte e la chitarra “un ragazzino bravissimo che aveva studiato al conservatorio”. Rispondeva al nome di Gigi D’Alessio.
Ma il suo vero idolo era un altro: la sua passione per il calcio lo portò a idolatrare Maradona. La prima volta che lo vide aveva sette anni: il Napoli giocava contro l’Inter al San Paolo, le due squadre pareggiarono (0-0) e fu lo zio a indicargli colui che poi sarebbe diventato il suo mito indiscusso.
Lo chef mai avrebbe immaginato che solo qualche decennio dopo, si sarebbe trovato a “proteggerlo” dalla stampa. Era il 2006, Maradona si rifugiò da lui, a Villa Crespi, per tre giorni: era in incognito, dormiva di giorno e alle 4 di notte chiamava il room service. I giornalisti chiamavano per chiedergli di lui, ma lui non lo ha mai tradito. Non avrebbe mai potuto tradire il suo mito.
Poi all’improvviso, qualche anno dopo, è arrivata la tv. Prima Cucine da incubo, poi MasterChef e qui si diverte perché non recita: è sé stesso al 100%. Non ho i tempi televisivi, non ho il linguaggio. Mi dicono però che ho un mio stile. (…) Con i colleghi mi trovo benissimo”: queste le sue parole.
Oggi Antonino Cannavacciuolo è celebre in tutto il Paese, di lui si parla ovunque, le persone percorrono chilometri per poter mangiare in una delle sue strutture. Eppure non sempre la vita dello chef non è stata sempre semplice: quando era giovanissimo nelle cucine in cui lavorava si consumavano dei veri e propri drammi, a guardare la situazione oggi.
“Da ragazzino mi veniva la febbre per la fatica, e mio padre mi mandava a dormire in macchina. Solo una volta mi portò in ospedale perché avevo le gambe gonfie appunto come prosciutti”: già partendo dalla famiglia, tutti cercavano di spiegargli il valore della fatica, quella vera. A partire dal padre, a cui ancora oggi è legatissimo, come lo è “alla memoria di sua madre, nonna Fiorentina”.
Ma era a lavoro che arrivavano le batoste, nel vero senso della parola: “Sono andato a lavorare in cucina a 13 anni e mezzo. La notte tornavo a casa con spalle e braccia blu per le mazzate che mi rifilava uno chef. Mia mamma voleva protestare. Mio padre disse: “Se gliele ha date, significa che se le meritava”. Ora quello chef lo arresterebbero per maltrattamenti. A me è servito”.
Oggi Cannavacciuolo ha tramutato quelle botte in pacche sulle spalle amichevoli, diventate il suo segno di riconoscimento in un certo senso.